Dieci anni dopo l'esordio letterario con Il suggeritore, Donato Carrisi firma il proprio debutto alla regia adattando un suo romanzo. Un classico thriller che sa giocare bene con le regole del genere anche sul grande schermo. Preapertura alla Festa del Cinema di Roma.
Donato Carrisi uccide Donato Carrisi e arriva sul grande schermo. Sì, il passaggio al cinema di uno degli autori italiani di thriller più apprezzati all'estero, passa da questo processo catartico, come lui stesso spiega: "Il primo giorno di riprese ho ucciso l'autore e me ne sono sbarazzato". Così a dieci anni dall'esordio su carta con Il suggeritore, Carrisi presta il suo romanzo La ragazza nella nebbia al racconto per immagini, lo adatta e lo dirige segnando la sua prima volta dietro la macchina da presa. Il risultato è un film (scelto per una delle preaperture della Festa del Cinema di Roma) che trova naturale collocazione nel territorio classico della commistione tra cinema e letteratura, rimanendoci dentro, rispettandone le regole, senza voler strafare.
Leggi anche: Festa del Cinema di Roma 2017: Da Soderbergh a Linklater. Monda: "Sarà una bella festa"
Carrisi riesce ad adempiere ai suoi compiti da regista e lo fa 'copiando' dai migliori maestri del noir degli anni '60, dalla grande stagione del thriller, disseminando suggestioni che vanno da Seven a Luc Besson.
Un'opera prima dignitosa, che nel genere dimostra di sapersi muovere divertendosi e solleticando di continuo la curiosità dello settatore, che rimarrà incollato alla poltrona dall'inizio alla fine, in un continuo proliferare di mille possibili finali.
Leggi anche: I 20 anni di Seven: sette ingredienti per un cult da brivido
Sbatti il mostro in prima pagina
La ragazza nella nebbia segue nella forma la struttura di un tradizionale poliziesco e nella sostanza mostra un'ambizione più profonda: diventare un'indagine sul male nella forma dell'esibizionismo mediatico.
Al centro si muovono i protagonisti di una storia che si rivelerà al pubblico scena dopo scena, imboccando lo spettatore, chiamandolo a ricostruire un puzzle che non sempre lo porterà nella direzione esatta.
Tutto comincia e finisce in un paesino di fantasia, Avechot, un villaggio di montagna battuto dalla neve ai piedi di una vallata, in una notte di nebbia dopo uno strano incidente. L'uomo alla guida dell'auto coinvolta si chiama Vogel (Toni Servillo), fino a poco tempo prima era un noto ispettore della zona.
Ad ascoltarlo nella penombra di una piccola stanza d'ufficio un mite psichiatra (Jean Reno) che cerca di fargli raccontare l'accaduto. Per riannodare i fili della matassa sarà necessario però tornare ad alcuni mesi prima, a quel 23 dicembre quando proprio fra quelle montagne scompare la sedicenne Anna Lou, una ragazza semplice, pochi grilli per la testa, un diario e le riunioni della confraternita a cui appartiene.Vogel ricomporrà il mistero portando il suo interlocutore avanti e indietro nel tempo, in un continuo alternarsi di flashback, che sveleranno i segreti più nascosti di Avechot, dove nulla è ciò che sembra.
Ognuno racconterà la propria verità, anche la stampa manipolata da Vogel a proprio piacimento, perché lui è uno di quelli pronto a "imboccare i media e l'opinione pubblica per prendere tempo, in attesa che esca fuori qualcosa". Una partita giocata sul terreno dello sciacallaggio per assecondare il chiasso mediatico attorno alla tragedia e dare al pubblico un mostro, un colpevole "prima che spunti fuori un corpo".
Leggi anche: Toni Servillo su Lasciati andare: "Il bello di affrontare la vita da dilettanti"
Niente è come sembra
Sul banco degli accusati Carrisi mette proprio i media e il loro ruolo in casi di cronaca come quello di Anna Lou, che per molti aspetti ricorderà la vicenda di Yara Gambirasio. I processi mediatici che si consumano prima in Tv che nei tribunali, la caccia al mostro, la fame bulimica di notizie che spesso non hanno nulla a che fare con le indagini, la curiosità morbosa di sapere e vedere un corpo, un indizio, una macchia di sangue, un'arma del delitto, la necessità di consegnare un colpevole al pubblico: è solo l'altra faccia del male, la più subdola e a volte la meno visibile. E in questo caso ha il volto di Vogel-Servillo, ambiguo e fascinoso ad ogni smorfia, diabolico ad ogni alzata di ciglia, uno per cui non contano né la scientifica né il Dna perché "la giustizia non fa ascolti, non interessa a nessuno" e che troverà consolazione in queste parole: "Ho fatto solo il mio lavoro: rendere felice il pubblico".
Non che gli altri personaggi siano esenti dalla personificazione del male: il regista ne ha per tutti, ad ognuno la propria dose in un gioco di matriosche che scoperchiano una perversione dopo l'altra, ribaltano la verità e rimescolano gli indizi. Forse troppo, soprattutto nell'ultima parte del film in cui i colpi di scena si susseguono freneticamente e in maniera rocambolesca, rischiando di disorientare lo spettatore.
Movieplayer.it
3.0/5