"Ricostruzione inverosimile" (2024)

Il giudice non crede alla ricostruzione di Renato Caiafa, il 19enne di Napoli che avrebbe ucciso per sbaglio l’amico fraterno 18enne Arcangelo Correra ‘scarrellando’ una pistola Beretta modello 92, calibro 9×21, con il caricatore maggiorato a 26 colpi. Trovata per strada, dice il ragazzo, in piazza Sedil Capuano, dove è avvenuto lo sparo, alle cinque di mattina di sabato scorso. Il magistrato usa tre volte la parola “inverosimile” in dieci pagine. E una quarta volta scrive “non è verosimile”. Cosa? “La tesi del ritrovamento casuale dell’arma, abbandonata sulla ruota di un’autovettura. I fatti sono avvenuti di notte, l’arma è nera e, dunque, mai sarebbe stata visibile, qualora abbandonata al di sopra di uno pneumatico, a sua volta nero, al di sotto della carrozzeria dell’auto”.

Dunque Caiafa – difeso dagli avvocati Annalisa Recano e Giuseppe De Gregorio – resta in cella, anche se il Gip Maria Gabriella Iagulli ha annullato il decreto di fermo, ritenendo insussistente il pericolo di fuga dell’indagato che si era presentato spontaneamente in Questura. Ma ha convalidato l’arresto in carcere per le accuse di detenzione e porto abusivo d’armi e ricettazione di un’arma con la matricola abrasa, e quindi di provenienza illecita. In questa fase l’omicidio non è contestato, il pm Ciro Capasso valuterà se è stato colposo o c’è stato dolo.

Quel che è in discussione ora è l’attendibilità del racconto dei fatti e della provenienza della pistola, intorno ai quali ruotano le prime accuse. Caiafa ha affermato di aver trovato la Beretta su uno pneumatico di una macchina parcheggiata lì da molto tempo. Di aver pensato che fosse una pistola giocattolo, sia pure priva del tappo rosso. Di averci giocato con l’amico Correra, che lo avrebbe “sfidato” per scherzo a sparare “mostrando il petto”. Di essersi accorto soltanto dopo che l’arma era vera, col rumore del colpo e il sangue ad imbrattare lo scooter con il quale lui, Correra e un amico erano arrivati in piazzetta. Di avergli prestato soccorso, portandolo subito all’ospedale. E poi una volta recatosi in Questura, sentito dalla Mobile guidata dal primo dirigente Giovanni Leuci, diceva anche di “essere certo che l’arma non fosse lì nascosta da tempo”.

Il giudice però sottolinea che Caiafa – e le persone che hanno testimoniato sull’accaduto – avrebbe fornito una versione che fa acqua in alcuni punti cruciali. Chi era lì dice di non aver visto nessuna arma, occhi chiusi al momento dello sparo. Caiafa invece parla sin da subito dell’arma, di averla abbandonata, di essere andato nel panico e poi di aver chiamato uno zio per farla recuperare. Perché, se dice di averla trovata per strada? E perché, pur restituendo l’arma agli investigatori, ha buttato i vestiti in un cassonetto? Mosse che sembrano dettate da una persona lucida, non agitata, come sostiene il magistrato.

Sono tutte tracce delle bugie del ragazzo, secondo il giudice. “Anche a voler ammettere che l’arma fosse stata lì nascosta, solo chi ne avesse conosciuto il posizionamento preciso avrebbe potuto vederla, tanto più che il Caiafa diceva che quell’ arma era la prima volta che l’aveva scorta sulla ruota”. E poi: “L’arma, inoltre, è risultata essere un’arma clandestina che ha un enorme valore di mercato, tanto più se si consideri che era anche un’arma modificata. Nessuno avrebbe lasciato un’arma carica, considerato il suo valore, per strada alla libera apprensione da parte di terzi. Di certo, non si può ritenere che taluno se ne fosse sbarazzato, in quanto la criminalità tende ad acquisire il possesso di questo tipo di armi, difficilmente riconducibili ad un possessore e di certo non le abbandona, dopo averle pagate”. E poi, si legge anche questa riflessione, un’arma giocattolo è molto più leggera di una vera.

In sostanza, “tutta la condotta post factum tenuta da Caiafa dimostra che quell’arma non era stata trovata per caso”. Circostanza peraltro affermata solo da lui e non anche dagli altri amici presenti. Il giudice ipotizza anche il pericolo di reiterazione del reato: dall’ordinanza emerge che il ragazzo avrebbe la possibilità di reperire armi “dagli stessi circuiti criminali che lo hanno, già nel recente passato, armato”. Ipotizzabile anche l’inquinamento probatorio: di qui la necessità di lasciarlo in carcere, così da non avere nessuna possibilità di entrare in contatto con gli amici testimoni – erano in quattro, anche un cugino omonimo della vittima, e si sono mostrati reticenti – per influenzarne la versione dei fatti.

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